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Numero 70 (26 Ottobre 2006) |
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Non
v'è dubbio che il revival - in qualsiasi campo venga esercitato - possa
arrecare sensazioni assai piacevoli: esso infatti, sull'onda di un ricordo che
vellica gradevolmente i nostri sensi, permette di riappropriarci di qualcosa
che appartiene al passato, che è legato a un periodo irrimediabilmente
trascorso ma che ora possiamo recuperare, facendolo rivivere in forme
aggiornate e in linea con l'epoca odierna.
E
tuttavia non sempre l'operazione nostalgia funziona in modo così perfetto. Se infatti
non è condotta in maniera adeguata - ossia con quel giusto mix di déjà-vu e innovazione
- essa rischia di generare noia, insofferenza o peggio ancora irritazione, in
quanto il soggetto percipiente tende a non riconosce il duplice strato (l'antico
e il moderno) di cui si compone l'opera oggetto di revival, ed è quindi portato
a rigettarla, poiché non vi ritrova né lo spirito che aveva dato vita alla sua espressione
originaria, né gli elementi di novità che oggi sono in grado di caratterizzarla.
Tutto
ciò appare particolarmente evidente in ambito musicale in cui, com'è noto, le
operazioni revivalistiche sono piuttosto frequenti: difatti la riproposizione di
brani o melodie del passato, se non è attentamente calibrata, può dar luogo a
prodotti che rischiano di apparire dei semplici involucri, contenitori senza
contenuto, meri significanti dai quali è assente ogni valore estetico, e che dunque
sono incapaci di restituire le atmosfere e le sensazioni legate alle opere primigenie.
Anche
il mondo della musica rock non va esente da questa condizione. Per limitarci
agli anni Settanta, notiamo infatti che mostri sacri quali Crosby Stills
Nash & Young, nel tentativo di perpetuare i momenti magici di Déjà vu
e 4 Way Street, abbiano conseguito risultati assai deludenti, né
sembrano aver centrato il bersaglio gli ultimi Traffic, mentre del tutto
indecifrabile appare la metamorfosi dei Colosseum, a cui non è bastato
diventare Colosseum II per rinnovarsi rimanendo se stessi. Ma ancora più
malinconici appaiono gli esiti a cui sono pervenuti gruppi leggendari quali i Grateful
Dead o i Jefferson Airplane, per non parlare delle conseguenze che
ha provocato la diaspora dei Pink Floyd, o la rincorsa al proprio
passato mitico/ritmico/timbrico condotta senza soste dal vecchio Carlos
Santana.
A
questo scoraggiante elenco vi sono tuttavia delle eccezioni: fra esse, a nostro
avviso, si colloca uno degli ultimi album degli Allman Brothers Band
intitolato Hittin' the note. Difatti la raccolta, uscita nel 2003,
ripropone in forme fresche e vivaci il sound che fin dalle origini ha
contraddistinto il gruppo della Georgia, e che è stato consegnato a dischi
memorabili quali Live at Fillmore East, Eat a peach o Brothers
and sisters.
Da
allora la band si è rinnovata nella quasi totalità, se è vero che rispetto al
nucleo originario sono rimasti soltanto il leader, tastierista e cantante Gregg
Allman ed il batterista Butch Trucks. In particolare, dopo una serie di
separazioni e di ritorni, si registra il definitivo abbandono del chitarrista
Dickey Betts, ossia del musicista che - specie in seguito alla tragica
scomparsa di Duane Allman - ha contribuito più di ogni altro a definire le
caratteristiche del gruppo, fatte non solo di aspre sonorità southern-blues, ma
di straordinarie "fughe" chitarristiche, di repentine accelerazioni e subitanei
ritorni che segnano in maniera profonda lo sviluppo dei brani.
La
stessa storia degli Allman Brothers, dunque, avrebbe potuto condurre a un mesto
e autocelebrativo presente: invece, lo spirito che fin dalle origini ha animato
la band è misteriosamente riuscito a prevalere sulle tragedie che l'hanno
colpita (a un anno dalla morte di Duane scompare infatti il bassista Berry Oakley,
anch'egli in un incidente motociclistico), alle defezioni di molti dei suoi
componenti, e all'incombente necessità - propria, come si è visto, di quasi
tutti i gruppi musicali - di perpetuare se stessi consegnandosi a una
continuità inespressiva e ridondante.
Forse
sarà stata l'anima southern, forse l'incapacità, da parte di una band
così sanguigna e vitale, di mantenere un approccio meramente di superficie: sta
di fatto che già nel 1990, dopo alcuni album non particolarmente riusciti, gli
Allman Brothers ritrovano la propria vena con Seven turns in cui, al
termine di una prolungata assenza, si assiste al rientro di Dickey Betts, insieme
al nuovo talentuoso chitarrista Warren Haynes ed al giovane bassista Allen
Woody che, com'è stato osservato, "conosce ogni singola nota del repertorio del
gruppo e realizza il sogno di una vita, sostituendo il suo idolo di sempre
Berry Oakley".
Altrettanto
interessante appare poi il successivo Shades of two worlds (1991) e
soprattutto gli album dal vivo An evening with the Allman Brothers Band
(1992), 2nd Set (1995) e Peakin' at the Beacon (2000), anche se
il più convincente ritorno allo Zeitgeist originario avviene appunto nel
2003 con Hittin' the note.
In
esso, accanto ai padri fondatori Gregg Allman e Butch Trucks, ritroviamo un
Warren Haynes quanto mai ispirato, al cui fianco milita ora Derek Trucks,
nipote di Butch e assai versato nell'uso della slide guitar: ed è
proprio la ricomposta dualità chitarristica a segnare fortemente il sound dell'album,
dando vita a un prodotto assai vicino all'iniziale nucleo espressivo della band,
per quanto contrassegnato da una personalità e uno stile decisamente moderni.
Ritroviamo
così non solo le sonorità southern-blues che da sempre hanno caratterizzato il
gruppo, e che sono riportate ad alti livelli dalla voce sempre più "nera" di
Gregg Allman, ma i duetti fra chitarre resi celebri da Duane e Dickey Betts, i
grappoli di note, le riprese e le accelerazioni che, come abbiamo visto, costituiscono
uno dei punti di forza della band georgiana. Un esempio, fra i molti possibili,
si ritrova nel secondo brano, High cost of low living in cui, dopo una
lunga e articolata esposizione del tema, questo viene raccolto da entrambe le
chitarre - secondo un classico stilema delle origini - ed è poi declinato a
turno dai due solisti, che danno vita ad assoli di straordinaria intensità, accompagnati
da un drumming fitto ma lineare, e circondati da un ampio tappeto sonoro
elaborato dall'organo di Gregg, fino alla dolcissima conclusione che si dispiega
in una tenue, eterea melodia, che richiama le modalità espressive del passato
ma ci consente al tempo stesso di non rimpiangerle.
È comunque
l'intero album che si sviluppa su una pluralità di piani espressivi, che vanno
dal southern-blues incarnato dalla voce di Gregg Allman a momenti quasi
psichedelici affidati ai due chitarristi, senza trascurare un'intelligente
ripresa del patrimonio rock, compendiata in un classico dei Rolling Stones
qual è Heart of stone. Ma il brano più intenso e vibrante è probabilmente
Instrumental illness che, dopo un incipit che ricorda i primi Santana,
si dispiega con le tipiche modalità legate alla compresenza e all'alternanza
delle chitarre, accompagnate da un incessante lavoro di basso del giovane Oteil
Burbridge, che diventa quasi un terzo solista con il suo suo stile alla Jaco
Pastorius; a ciò si aggiunge il corposo strato armonico disegnato dall'organo, oltre
alla performance quanto mai vigorosa delle due chitarre che, ora con sonorità
turbolente e sfibranti ora con rapide variazioni ritmiche e timbriche, rievocano
in maniera brillante i momenti più alti della band.
È
probabile, com'è stato scritto, che "con questo album gli Allman si riprendono
il loro trono di indiscussi re del southern-rock"; ciò che a noi sembra più
importante è aver mostrato come, utilizzando materiali semplici e
immediatamente comprensibili, sia possibile rifarsi al passato pur restando
immersi nel presente, rimanere fedeli a stilemi e modalità classiche ma allo
stesso tempo innovarle profondamente.
***
Proprio
questo rinnovamento nella continuità pare essere essere la cifra espressiva di
un altro protagonista degli anni Settanta, e cioè Ian Anderson. Per
nulla esaurita la lunga stagione dei Jethro Tull (che continuano a realizzare
dischi e concerti grazie al sodalizio fra Anderson e lo "storico" chitarrista
Martin Barre), l'ormai leggendario flautista e band-leader ha da tempo
intrapreso una propria carriera solistica, che lo ha portato a produrre una
piccola ma interessante serie di album, nei quali ripropone in forme innovative
i temi che lo hanno reso celebre con il gruppo, e che consistono in
un'originale e fantasmagorica miscela di sonorità rock e folk, a cui di volta
in volta si aggiungono elementi jazzistici e colte variazioni classicheggianti.
Ma
non sono soltanto questi gli ingredienti che Anderson utilizza per dar vita ai
suoi prodotti, come dimostra la sua prima prova solistica, ossia quel Walk
into light che nel 1983 ha spiazzato pubblico e critica con le sue sonorità
elettroniche e le sue musiche campionate: in questo periodo infatti il
musicista scozzese vive una forte tensione al cambiamento, che coinvolge - con
esiti non certo smaglianti - gli stessi Jethro Tull, e che anche in questo
disco si manifesta in maniera piuttosto incerta e contraddittoria. Un risultato
ancor più sorprendente si registra poi con il secondo album, uscito nel 1995 e
che già dal titolo (Divinities: twelve dances with God) ne fa
intravvedere le caratteristiche espressive, dal momento che appare come una
sorta di pastiche in cui vanno a braccetto atmosfere new age, influenze
folk e sporadici richiami al mondo dei Jethro Tull.
Si
tratta tuttavia di un appannamento momentaneo, se è vero che il successivo The
secret language of birds, edito nel 2000, riporta la produzione di Anderson
a livelli decisamente elevati. In esso infatti l'ispirazione folk non attinge
soltanto alla tradizione celtica ma anche a quella indiana e russa, mentre il
leader conferma le sue doti di compositore e di vocalist, oltre che di
virtuoso della chitarra acustica e del flauto, generando un sound ricco ma
insieme misurato, e dando vita a un disco "che dimostra una solidità e una
coerenza che gli stessi Jethro Tull raramente hanno raggiunto".
E
se più legato allo stile del gruppo britannico appare il successivo Rupi's
dance, il lavoro con cui il quasi cinquantanovenne artista scozzese sembra
recuperare la sua vicenda musicale rivitalizzandola con nuove modalità
espressive, è senz'altro il doppio album pubblicato nel 2005 e intitolato Ian
Anderson plays the orchestral Jethro Tull.
Il
disco è stato realizzato con la Frankfurt Neue Philarmonie Orchestra, a cui si sono
aggiunti alcuni compagni di viaggio di Anderson, e cioè il tastierista John
O'Hara, il bassista David Goodier, il batterista James Duncan e l'interessante
chitarrista Florian Ophale: ed è appunto la duplice componente - rock e sinfonica
- che dà vita ad una originale struttura armonica, che viene sapientemente
sfruttata da Anderson per rievocare, in forme decisamente innovative, i brani
più celebri dei Jethro Tull.
E
se rispetto alle esecuzioni originarie il fuoco sembra ormai spento, si ha tuttavia
la sensazione che esso continui a covare sotto le ceneri, irradiandosi piano,
poco per volta, fino a creare un'atmosfera particolarmente calda e accogliente.
Ciò è reso possibile proprio grazie alla pluralità dei piani sonori realizzati
dagli strumenti moderni e dall'orchestra sinfonica: difatti, se i primi permettono
di conservare i timbri e i colori delle origini, gli arrangiamenti orchestrali danno
vita a momenti musicali variegati e compositi, consegnandoci un prodotto al
tempo stesso raffinato e brillante.
In
questa originale tessitura sonora vengono dunque riproposte composizioni poco
note dei Jethro Tull, insieme a storiche songs quali Bourée, Living
in the past, My God, Locomotive breath. Ma forse l'esempio
più evidente si ritrova in uno dei brani più famosi del gruppo, e cioè Aqualung:
dopo un incipit orchestrale teso e vibrante (che ricorda, per alcuni aspetti, le
"ouverture" di celebri musical), si inserisce il flauto, che delinea brevi segmenti
volti a introdurre il tema dominante, mentre un po' per volta s'incunea la
batteria, sviluppando un drumming fortemente ritmato, quasi a passo di
marcia, con l'orchesta che fa da controcanto disegnando eleganti spunti melodici.
Di seguito s'innesta la voce di Anderson, che ha riposto i modi grintosi e sbeffeggianti
di un tempo a vantaggio di un'intensità contenuta e pacata. Ma è ancora il flauto
che continua a dipanare note su note, finché ad esso non si sovrappone la
chitarra, prima distorta e accompagnata dall'orchestra, poi sempre più limpida,
in un incessante dialogo con il flauto ricco di sonorità dense e avvincenti. Da
questo prolungato duetto si diparte poi un lancinante assolo di chitarra,
accompagnato dalle note del pianoforte: ma ecco che il flauto si riprende la
scena per lasciarla subito dopo al pianoforte, mentre l'orchestra torna a disegnare
trame assai elaborate, fino al riepilogo finale, affidato da un lato al canto -
non più drammatico ma triste e malinconico - dall'altro all'orchestra che, insieme
al flauto, porta alle estreme conseguenze un tema che per oltre dieci minuti ha
ammaliato e avvinto l'ascoltare.
Ed
ovviamente è l'intero album ad essere impregnato di questa singolare miscela
musicale, in cui consolidati stilemi espressivi si fondono con modalità innovative
e inedite. Ed è così che lo Zeitgeist, l'originario spirito del tempo,
non appare deformato né riproposto in termini piatti e scontati, ma riemerge in
forme decisamente dialettiche e convincenti: una caratteristica che solo pochi,
nell'odierno panorama musicale, sembrano in grado di realizzare.