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Elephant Talk
Numero 70
(26 Ottobre 2006)
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Musik Zeitgeist ovvero Lo spirito del tempo (che fu)

di Michele Santoro


[Allman Brothers - Hittin The Note] [Ian Anderson Plays Jethro Tull]
Musik Zeitgeist ovvero

 

Non v'è dubbio che il revival - in qualsiasi campo venga esercitato - possa arrecare sensazioni assai piacevoli: esso infatti, sull'onda di un ricordo che vellica gradevolmente i nostri sensi, permette di riappropriarci di qualcosa che appartiene al passato, che è legato a un periodo irrimediabilmente trascorso ma che ora possiamo recuperare, facendolo rivivere in forme aggiornate e in linea con l'epoca odierna.

 

E tuttavia non sempre l'operazione nostalgia funziona in modo così perfetto. Se infatti non è condotta in maniera adeguata - ossia con quel giusto mix di déjà-vu e innovazione - essa rischia di generare noia, insofferenza o peggio ancora irritazione, in quanto il soggetto percipiente tende a non riconosce il duplice strato (l'antico e il moderno) di cui si compone l'opera oggetto di revival, ed è quindi portato a rigettarla, poiché non vi ritrova né lo spirito che aveva dato vita alla sua espressione originaria, né gli elementi di novità che oggi sono in grado di caratterizzarla.

 

Tutto ciò appare particolarmente evidente in ambito musicale in cui, com'è noto, le operazioni revivalistiche sono piuttosto frequenti: difatti la riproposizione di brani o melodie del passato, se non è attentamente calibrata, può dar luogo a prodotti che rischiano di apparire dei semplici involucri, contenitori senza contenuto, meri significanti dai quali è assente ogni valore estetico, e che dunque sono incapaci di restituire le atmosfere e le sensazioni legate alle opere primigenie.

 

Anche il mondo della musica rock non va esente da questa condizione. Per limitarci agli anni Settanta, notiamo infatti che mostri sacri quali Crosby Stills Nash & Young, nel tentativo di perpetuare i momenti magici di Déjà vu e 4 Way Street, abbiano conseguito risultati assai deludenti, né sembrano aver centrato il bersaglio gli ultimi Traffic, mentre del tutto indecifrabile appare la metamorfosi dei Colosseum, a cui non è bastato diventare Colosseum II per rinnovarsi rimanendo se stessi. Ma ancora più malinconici appaiono gli esiti a cui sono pervenuti gruppi leggendari quali i Grateful Dead o i Jefferson Airplane, per non parlare delle conseguenze che ha provocato la diaspora dei Pink Floyd, o la rincorsa al proprio passato mitico/ritmico/timbrico condotta senza soste dal vecchio Carlos Santana.

 

A questo scoraggiante elenco vi sono tuttavia delle eccezioni: fra esse, a nostro avviso, si colloca uno degli ultimi album degli Allman Brothers Band intitolato Hittin' the note. Difatti la raccolta, uscita nel 2003, ripropone in forme fresche e vivaci il sound che fin dalle origini ha contraddistinto il gruppo della Georgia, e che è stato consegnato a dischi memorabili quali Live at Fillmore East, Eat a peach o Brothers and sisters.

 

Da allora la band si è rinnovata nella quasi totalità, se è vero che rispetto al nucleo originario sono rimasti soltanto il leader, tastierista e cantante Gregg Allman ed il batterista Butch Trucks. In particolare, dopo una serie di separazioni e di ritorni, si registra il definitivo abbandono del chitarrista Dickey Betts, ossia del musicista che - specie in seguito alla tragica scomparsa di Duane Allman - ha contribuito più di ogni altro a definire le caratteristiche del gruppo, fatte non solo di aspre sonorità southern-blues, ma di straordinarie "fughe" chitarristiche, di repentine accelerazioni e subitanei ritorni che segnano in maniera profonda lo sviluppo dei brani.

 

La stessa storia degli Allman Brothers, dunque, avrebbe potuto condurre a un mesto e autocelebrativo presente: invece, lo spirito che fin dalle origini ha animato la band è misteriosamente riuscito a prevalere sulle tragedie che l'hanno colpita (a un anno dalla morte di Duane scompare infatti il bassista Berry Oakley, anch'egli in un incidente motociclistico), alle defezioni di molti dei suoi componenti, e all'incombente necessità - propria, come si è visto, di quasi tutti i gruppi musicali - di perpetuare se stessi consegnandosi a una continuità inespressiva e ridondante.

 

Forse sarà stata l'anima southern, forse l'incapacità, da parte di una band così sanguigna e vitale, di mantenere un approccio meramente di superficie: sta di fatto che già nel 1990, dopo alcuni album non particolarmente riusciti, gli Allman Brothers ritrovano la propria vena con Seven turns in cui, al termine di una prolungata assenza, si assiste al rientro di Dickey Betts, insieme al nuovo talentuoso chitarrista Warren Haynes ed al giovane bassista Allen Woody che, com'è stato osservato, "conosce ogni singola nota del repertorio del gruppo e realizza il sogno di una vita, sostituendo il suo idolo di sempre Berry Oakley".

 

Altrettanto interessante appare poi il successivo Shades of two worlds (1991) e soprattutto gli album dal vivo An evening with the Allman Brothers Band (1992), 2nd Set (1995) e Peakin' at the Beacon (2000), anche se il più convincente ritorno allo Zeitgeist originario avviene appunto nel 2003 con Hittin' the note.

In esso, accanto ai padri fondatori Gregg Allman e Butch Trucks, ritroviamo un Warren Haynes quanto mai ispirato, al cui fianco milita ora Derek Trucks, nipote di Butch e assai versato nell'uso della slide guitar: ed è proprio la ricomposta dualità chitarristica a segnare fortemente il sound dell'album, dando vita a un prodotto assai vicino all'iniziale nucleo espressivo della band, per quanto contrassegnato da una personalità e uno stile decisamente moderni.

 

Ritroviamo così non solo le sonorità southern-blues che da sempre hanno caratterizzato il gruppo, e che sono riportate ad alti livelli dalla voce sempre più "nera" di Gregg Allman, ma i duetti fra chitarre resi celebri da Duane e Dickey Betts, i grappoli di note, le riprese e le accelerazioni che, come abbiamo visto, costituiscono uno dei punti di forza della band georgiana. Un esempio, fra i molti possibili, si ritrova nel secondo brano, High cost of low living in cui, dopo una lunga e articolata esposizione del tema, questo viene raccolto da entrambe le chitarre - secondo un classico stilema delle origini - ed è poi declinato a turno dai due solisti, che danno vita ad assoli di straordinaria intensità, accompagnati da un drumming fitto ma lineare, e circondati da un ampio tappeto sonoro elaborato dall'organo di Gregg, fino alla dolcissima conclusione che si dispiega in una tenue, eterea melodia, che richiama le modalità espressive del passato ma ci consente al tempo stesso di non rimpiangerle.

 

È comunque l'intero album che si sviluppa su una pluralità di piani espressivi, che vanno dal southern-blues incarnato dalla voce di Gregg Allman a momenti quasi psichedelici affidati ai due chitarristi, senza trascurare un'intelligente ripresa del patrimonio rock, compendiata in un classico dei Rolling Stones qual è Heart of stone. Ma il brano più intenso e vibrante è probabilmente Instrumental illness che, dopo un incipit che ricorda i primi Santana, si dispiega con le tipiche modalità legate alla compresenza e all'alternanza delle chitarre, accompagnate da un incessante lavoro di basso del giovane Oteil Burbridge, che diventa quasi un terzo solista con il suo suo stile alla Jaco Pastorius; a ciò si aggiunge il corposo strato armonico disegnato dall'organo, oltre alla performance quanto mai vigorosa delle due chitarre che, ora con sonorità turbolente e sfibranti ora con rapide variazioni ritmiche e timbriche, rievocano in maniera brillante i momenti più alti della band.

 

È probabile, com'è stato scritto, che "con questo album gli Allman si riprendono il loro trono di indiscussi re del southern-rock"; ciò che a noi sembra più importante è aver mostrato come, utilizzando materiali semplici e immediatamente comprensibili, sia possibile rifarsi al passato pur restando immersi nel presente, rimanere fedeli a stilemi e modalità classiche ma allo stesso tempo innovarle profondamente.

 

***

 

Proprio questo rinnovamento nella continuità pare essere essere la cifra espressiva di un altro protagonista degli anni Settanta, e cioè Ian Anderson. Per nulla esaurita la lunga stagione dei Jethro Tull (che continuano a realizzare dischi e concerti grazie al sodalizio fra Anderson e lo "storico" chitarrista Martin Barre), l'ormai leggendario flautista e band-leader ha da tempo intrapreso una propria carriera solistica, che lo ha portato a produrre una piccola ma interessante serie di album, nei quali ripropone in forme innovative i temi che lo hanno reso celebre con il gruppo, e che consistono in un'originale e fantasmagorica miscela di sonorità rock e folk, a cui di volta in volta si aggiungono elementi jazzistici e colte variazioni classicheggianti.

 

Ma non sono soltanto questi gli ingredienti che Anderson utilizza per dar vita ai suoi prodotti, come dimostra la sua prima prova solistica, ossia quel Walk into light che nel 1983 ha spiazzato pubblico e critica con le sue sonorità elettroniche e le sue musiche campionate: in questo periodo infatti il musicista scozzese vive una forte tensione al cambiamento, che coinvolge - con esiti non certo smaglianti - gli stessi Jethro Tull, e che anche in questo disco si manifesta in maniera piuttosto incerta e contraddittoria. Un risultato ancor più sorprendente si registra poi con il secondo album, uscito nel 1995 e che già dal titolo (Divinities: twelve dances with God) ne fa intravvedere le caratteristiche espressive, dal momento che appare come una sorta di pastiche in cui vanno a braccetto atmosfere new age, influenze folk e sporadici richiami al mondo dei Jethro Tull.

 

Si tratta tuttavia di un appannamento momentaneo, se è vero che il successivo The secret language of birds, edito nel 2000, riporta la produzione di Anderson a livelli decisamente elevati. In esso infatti l'ispirazione folk non attinge soltanto alla tradizione celtica ma anche a quella indiana e russa, mentre il leader conferma le sue doti di compositore e di vocalist, oltre che di virtuoso della chitarra acustica e del flauto, generando un sound ricco ma insieme misurato, e dando vita a un disco "che dimostra una solidità e una coerenza che gli stessi Jethro Tull raramente hanno raggiunto".

 

E se più legato allo stile del gruppo britannico appare il successivo Rupi's dance, il lavoro con cui il quasi cinquantanovenne artista scozzese sembra recuperare la sua vicenda musicale rivitalizzandola con nuove modalità espressive, è senz'altro il doppio album pubblicato nel 2005 e intitolato Ian Anderson plays the orchestral Jethro Tull.

Il disco è stato realizzato con la Frankfurt Neue Philarmonie Orchestra, a cui si sono aggiunti alcuni compagni di viaggio di Anderson, e cioè il tastierista John O'Hara, il bassista David Goodier, il batterista James Duncan e l'interessante chitarrista Florian Ophale: ed è appunto la duplice componente - rock e sinfonica - che dà vita ad una originale struttura armonica, che viene sapientemente sfruttata da Anderson per rievocare, in forme decisamente innovative, i brani più celebri dei Jethro Tull.

 

E se rispetto alle esecuzioni originarie il fuoco sembra ormai spento, si ha tuttavia la sensazione che esso continui a covare sotto le ceneri, irradiandosi piano, poco per volta, fino a creare un'atmosfera particolarmente calda e accogliente. Ciò è reso possibile proprio grazie alla pluralità dei piani sonori realizzati dagli strumenti moderni e dall'orchestra sinfonica: difatti, se i primi permettono di conservare i timbri e i colori delle origini, gli arrangiamenti orchestrali danno vita a momenti musicali variegati e compositi, consegnandoci un prodotto al tempo stesso raffinato e brillante.

 

In questa originale tessitura sonora vengono dunque riproposte composizioni poco note dei Jethro Tull, insieme a storiche songs quali Bourée, Living in the past, My God, Locomotive breath. Ma forse l'esempio più evidente si ritrova in uno dei brani più famosi del gruppo, e cioè Aqualung: dopo un incipit orchestrale teso e vibrante (che ricorda, per alcuni aspetti, le "ouverture" di celebri musical), si inserisce il flauto, che delinea brevi segmenti volti a introdurre il tema dominante, mentre un po' per volta s'incunea la batteria, sviluppando un drumming fortemente ritmato, quasi a passo di marcia, con l'orchesta che fa da controcanto disegnando eleganti spunti melodici. Di seguito s'innesta la voce di Anderson, che ha riposto i modi grintosi e sbeffeggianti di un tempo a vantaggio di un'intensità contenuta e pacata. Ma è ancora il flauto che continua a dipanare note su note, finché ad esso non si sovrappone la chitarra, prima distorta e accompagnata dall'orchestra, poi sempre più limpida, in un incessante dialogo con il flauto ricco di sonorità dense e avvincenti. Da questo prolungato duetto si diparte poi un lancinante assolo di chitarra, accompagnato dalle note del pianoforte: ma ecco che il flauto si riprende la scena per lasciarla subito dopo al pianoforte, mentre l'orchestra torna a disegnare trame assai elaborate, fino al riepilogo finale, affidato da un lato al canto - non più drammatico ma triste e malinconico - dall'altro all'orchestra che, insieme al flauto, porta alle estreme conseguenze un tema che per oltre dieci minuti ha ammaliato e avvinto l'ascoltare.

 

Ed ovviamente è l'intero album ad essere impregnato di questa singolare miscela musicale, in cui consolidati stilemi espressivi si fondono con modalità innovative e inedite. Ed è così che lo Zeitgeist, l'originario spirito del tempo, non appare deformato né riproposto in termini piatti e scontati, ma riemerge in forme decisamente dialettiche e convincenti: una caratteristica che solo pochi, nell'odierno panorama musicale, sembrano in grado di realizzare.


[Elephant Talk Homepage] Testo rivisto da Michele Santoro nel maggio 2009. Pagina web creata il 1 giugno 2009 da Riccardo Ridi